TEMI

La violenza e la non-fiction

Truman Capote, Emmanuel Carrère e Nicola Lagioia: tre maestri che hanno indagato le origini profonde del romanzo-verità

Di Valentina Nicoli • luglio 2021

Da dove nascono le storie

Ci interroghiamo spesso, leggendo i libri, sull’origine degli eventi narrati, ci chiediamo se siano ispirati alla biografia dell’autor*, se sia tutta fantasia o se siano rubati a qualcun*. E ancora, ci domandiamo cosa spinga un* autor* a scegliere una certa storia, se si tratti di una decisione razionale o di una pulsione e, nel secondo caso, da cosa è dettata. Insomma, ci chiediamo da dov’è che vengono tutte le storie che riempiono pagine e fotogrammi e perché si sono ritrovate intrappolate in una rete di parole e schemi narrativi.

Le storie sono ovunque e in nessun luogo. Alcun* scrittor* scelgono di parlare di sé, altr* inventano da zero personaggi e situazioni, altr* ancora prendono spunto dalle vite altrui, amic* o sconosciut* che chiacchierano a voce troppo alta al bancone di un bar. Eppure, ogni storia nasce da qualche parte nell* scrittor*: c’è un tema caldo da cui si sente attratt* per le ragioni più disparate, qualcosa che sente il bisogno di raccontare. La forma può essere molteplice, ma la pulsione è la stessa; anche nel romanzo meno autobiografico che possa venire in mente c’è sempre dentro un pezzo di chi l’ha scritto, anche solo nella scelta del soggetto o nel modo di guardare ad esso. Come riportano diversi studi sociolinguistici sulla scrittura narrativa, nel momento in cui una persona descrive un tavolo, può avere la sensazione di inventarne le fattezze, eppure quel tavolo esiste e chi lo cita lo ha visto, magari anni prima, magari di sfuggita. La scelta di una singola parola è fondamentale — perché usare “tavolo” e non un sinonimo? — così come lo è quello che essa veicola: al cospetto della parola “tavolo” l’immagine che balza alla mente di ciascun individuo è sempre diversa.

Capote, Carrère e Lagioia: cronaca, omicidi e romanzo-reportage

Ma se le storie nascono da un’urgenza, da un tema che l’autor* sente vicino, ci si potrebbe chiedere cosa spinge qualcun* a scrivere di fatti di cronaca. Non parliamo di giornalist*, s’intende, ma di autor* di non-fiction, coloro che decidono di non inventare nulla di una storia, ma di raccontare fatti realmente accaduti in maniera imparziale.

Maestro della pratica è Truman Capote, autore di A sangue freddo , un romanzo di non-fiction uscito prima a puntate sul New Yorker e poi nelle librerie nel 1966. Capote racconta dell’omicidio di Herbert Clutter, agricoltore benestante del Kansas, della moglie Bonnie e di due dei loro quattro figli, Nancy e Kenyon. L’autore lesse di questo caso di cronaca la mattina del 16 novembre 1959 sul New York Times e decise di recarsi sul luogo degli omicidi, dove intervistò gli abitanti dei dintorni e i detective assegnati al caso. Come si scoprì in tempi brevi, gli assassini erano due uomini da poco usciti dal carcere, Perry Edward Smith e Richard Hickock. In A sangue freddo Capote ricostruisce l’omicidio e le indagini che lo hanno seguito, presenta le persone coinvolte e il loro background, le motivazioni che hanno spinto i due uomini verso quel gesto e la reazione di chi è entrato in contatto con la strage. Quello di Truman Capote è considerato il primo romanzo di non-fiction.

A sangue freddo ricalca la cronaca, sia nella scelta dell’argomento sia nella voce utilizzata, un narratore esterno, onnisciente e, soprattutto, imparziale. In quello che possiamo definire un «romanzo-reportage» o «romanzo-verità», Capote prende le parti di tutti i personaggi, senza prendere le parti di nessuno. Per questo motivo lo scrittore è stato accusato di voyeurismo e il suo distacco meticoloso è stato criticato; ma l’intenzione di Capote era quella di dimostrare l’impotenza del romanzo davanti alla crudeltà dell’uomo.

Un altro esempio di non-fiction letteraria sono i libri di Emmanuel Carrère. Prendiamo come esempio il suo titolo più noto, L’Avversario: qui Carrère scrive di Jean-Claude Romand, che nel 1993 uccise la moglie, i figli e il giorno successivo anche i genitori, poi diede fuoco alla casa e tentò di uccidersi senza riuscirvi. A colpire Carrère, che lesse la notizia sui quotidiani, fu il fatto che Romand venisse descritto da tutt*l* conoscent* e l* amic* come un uomo posato e affettuoso. Cosa può portare una persona del genere a compiere una serie di reati così crudeli e violenti? Questa domanda spinse Carrère a dedicarsi al caso Romand, a seguire l’intero processo, a scrivere lettere all’assassino, a intervistare l* conoscent* e, infine, a scrivere L’Avversario.

Ispirandosi a Capote, anche Carrère cercò di utilizzare una terza narrante onnisciente, completamente esterna e imparziale, ma l’esito non gli parve soddisfacente. Così decise di inserire la propria voce. A narrare le vicende, infatti, è proprio Carrère stesso. È lui che espone i fatti, le proprie azioni e, qua e là, anche i propri pensieri. Questo non significa che il libro sia una condanna dell’assassino, né una difesa: Carrère, come si confà alla non-fiction, resta imparziale, espone gli avvenimenti e cerca di prendere il punto di vista di tutte le parti coinvolte senza difendere né accusare.

«Assolvere è comunque giudicare. Le spalle curve testimoniavano la lotta che in certi periodi sosteniamo per non lasciare che la nostra identità – o ciò che reputiamo tale – venga travolta dalla falsa immagine che gli altri hanno di noi.»

🖋 Nicola Lagioia

Un esempio non dissimile e più recente è quello di La città dei vivi di Nicola Lagioia. In questo caso siamo a Roma nel 2016, e vittima di un omicidio è Luca Varani, un ragazzo di ventitré anni. A professarsi colpevoli sono Manuel Foffo e Marco Prato, entrambi poco più grandi di Luca. Lagioia ricostruisce l’assassinio violentissimo, racconta del passato di ciascuno dei giovani coinvolti, degli interrogatori a Manuel e a Marco, dei programmi televisivi che hanno ospitato i genitori degli assassini e della vittima, della condanna dei due ragazzi. Voce narrante è una prima persona, Nicola Lagioia appunto.

L’autore dice che gli è stato proposto di scrivere un reportage sull’assassinio già nel 2016 e spiega i motivi che lo hanno spinto ad accettare l’incarico; confessa quali sono le ragioni personali che hanno fatto sì che il caso Varani lo avviluppasse nelle sue spire, racconta cosa lo ha ossessionato al punto da non limitarsi al reportage, ma da scrivere un libro, pubblicato ben quattro anni dopo i fatti. È una scintilla biografica a dar via al fuoco dell’interesse di Lagioia. Nonostante questo, lo scrittore non prende le parti di nessuno; nel romanzo analizza gli avvenimenti per come si sono svolti e riporta i punti di vista altrui, entra negli occhi degli assassini tanto quanto in quelli della vittima e dell* spettator*. Però, alcune caratteristiche del caso lo hanno spinto a scegliere proprio quell’evento di cronaca in mezzo a tanti e la causa non è solo la violenza inimmaginabile dell’omicidio, ma anche l’età delle persone coinvolte, che ha risvegliato qualcosa in Lagioia, nelle sue credenze e nel suo passato.

Da dove nasce allora la non-fiction?

Tutti questi esempi di romanzi non-fiction hanno come protagonista la violenza. Sono casi di cronaca cruenti che hanno fatto scalpore proprio per la portata inconcepibile del male commesso. Siamo davanti allo sterminio di una famiglia senza apparente motivo, all’uccisione della famiglia dell’assassino stesso e all’omicidio a coltellate e martellate privo di ogni movente di un ragazzo. La stessa centralità la si può trovare in buona parte della produzione di non-fiction: sono molti i libri, i documentari e le docuserie che affrontano temi violenti, crimini su larga scala, assassini seriali e via dicendo. Pensiamo ad esempio The staircase, una docuserie di origine francese che racconta di uno scrittore che uccide la moglie; o The Two Killings of Sam Cooke, il documentario che racconta di come un artista e attivista sia stato ucciso dalla propria manager; Making a Murderer, la serie tv originale Netflix che mette in scena la vita di Steven Avery, accusato più volte di omicidio e stupro; o ancora i film che sono stati fatti sull’omicidio di Amanda Knox. Ma questo interesse per la violenza e per gli assassini non si riscontra solamente in film e docuserie, bensì anche in programmi tesevisi che vengono trasmessi in prima serata come Chi l’ha visto?, Amore criminale di Rai 3 o Quarto Grado di Rete 4. Insomma, il crimine ci attrae, attrae coloro che scelgono di raccontarlo attraverso i diversi mezzi di comunicazione, ma anche coloro che fruiscono di quanto prodotto.

Allora, forse, l* autor* che hanno scelto di raccontare queste storie, di guardarle in modo imparziale, di entrare nei panni della vittima, ma anche in quelli del carnefice, non fanno una scelta dissimile da collegh* autor* di fiction. Pensiamo a Stephen King, maestro dell’horror, che da sangue e assassini, da male e dolore, ha creato un gran numero di romanzi. O ad Agata Christie che nei suoi gialli racconta di vittime e carnefici. Sono due generi diversi, ma alla base c’è la stessa curiosità: perché gli esseri umani infliggono dolore? Perché uccidono? Da dove nasce tutta questa violenza che dilaga nel mondo?

Stephen King cerca le risposte nell’horror e Agata Christie nel giallo, entrambi in storie di loro invenzione. Capote, Carrère e Lagioia le cercano nei fatti di cronaca, in persone in carne e ossa che hanno messo al mondo atti sconvolgenti. Ma il nucleo è lo stesso. Ciò che spinge l* autor* a scrivere di questi eventi (reali o immaginari) e ciò che spinge il pubblico a fruire delle loro creazioni sembra essere sempre lo stesso fuoco, un bisogno di capire in qualche modo la violenza di cui l’essere umano è in grado. Dietro ogni giallo, ogni horror e ogni non-fiction c’è un tentativo di trovare — nel contesto circostante, nella biografia dell* assassin*, in sentimenti forti e pulsioni inarrestabili —  una spiegazione al dolore. L’uomo, di fronte al male, o si rivolge a Dio o si rivolge alla razionalità. Il bisogno di spiegare a sé stessi la violenza sembra quasi essere congenito all’essere umano; a volte può essere inconscio, altre  consapevole, può nascere in un cantuccio non meglio precisato della persona o può derivare da eventi vissuti in prima persona o ai quali si è assistito. A volte è generato da semplici domande, da una riflessione.