Di Marco Sassaro • 28 giugno 2020
Una persona LGBTQ+ nasce e cresce in un mondo che considera la sua esistenza come un argomento “per adulti”, scabroso e persino pornografico. A che età è giusto parlare ai bambini di transessualità? Il film con la coppia gay non è un po’ troppo sessualizzante? E come glielo spiego? Insomma, (come recitava un vecchio tormentone benpensante): qualcuno pensi ai bambini!
Tutto ciò accade mentre la quasi totalità dei media infantili propagandano un mondo fatto di rosa e azzurro, di principi e di principesse che si amano, si baciano e hanno figli mentre si esibiscono in castissimi musical con i loro amici a quattro zampe.
Immersa in questa cecità obbligata, la persona che non è cishet (cisgender ed eterossuale) esiste in una società che non le fornisce le parole e i concetti necessari per parlare di sé, o che, peggio ancora, identifica il suo essere come un argomento poco adatto al salotto, un’eventualità esterna di cui al massimo si può discutere politicamente.
Eppure ci sono delle parole, e sono molte, che ci vengono fornite. Parole che non solo non vengono censurate neanche tra i giovanissimi, ma che addirittura vengono impartite come parte di un’educazione etica da molteplici istituzioni, prima fra tutte la religione. Direste mai a qualcuno di essere un pervertito? Perché invece non una z*ccola, una ninfomane, una peccatrice? Direste forse di essere una checca? O forse preferireste dichiararvi fr*cio, tr*vione o anche semplicemente invertita? Ma soprattutto… lo direste di fronte allo specchio? Perché riconoscersi e dichiararsi LGBTQ+ significa questo. Significa shame: vergogna.
Il primo passo della liberazione consiste nel riuscire a narrarsi in modo positivo, a scrivere dei propri amori, a giocare con le memorie dei primi battiti. Una volta che recuperiamo il rapporto con noi stessi che la vergogna ha reciso, possiamo riconoscerci come LGBTQ+ e creare un movimento. Per riuscirci, la vergogna, lo shame, deve essere estirpata dalle nostre identità.
Se osservate bene, il Pride non è una manifestazione come le altre; non ci sono solo cartelli e richieste formali, ma estetiche, glitter, musica, corpi e vite che si mettono in passerella. Pride è la dichiarazione collettiva di essere checca, trans, maschiaccio, “confuso”, zoccola e chi più ne ha più ne metta. Solo che, questa volta, queste identità sono impugnate come medaglie all’onore; i loro stereotipi sono invertiti e sottomessi ad un’azione politica che consiste nel reclamare il potere di parlare di sé, di esistere in pubblico senza censure Non si può combattere per i propri diritti se non si ritiene di meritarne, e se il Pride è la medicina che forziamo il mondo ad ingoiare, siamo prima di tutto noi a doverla prendere; perché anche se è sempre spassoso scandalizzare chi ci odia, il nostro vero pubblico siamo noi stessi.
Foto di Mercedes Mehling, Levi Saunders e Steve Johnson on Unsplash.
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