Una persona LGBTQ+ nasce e cresce in un mondo che considera la sua esistenza come un argomento “per adulti”, scabroso e persino pornografico. A che età è giusto parlare ai bambini di transessualità? Il film con la coppia gay non è un po’ troppo sessualizzante? E come glielo spiego? Insomma, (come recitava un vecchio tormentone benpensante): qualcuno pensi ai bambini!
Tutto ciò accade mentre la quasi totalità dei media infantili propagandano un mondo fatto di rosa e azzurro, di principi e di principesse che si amano, si baciano e hanno figli mentre si esibiscono in castissimi musical con i loro amici a quattro zampe.
Immersa in questa cecità obbligata, la persona che non è cishet (cisgender ed eterossuale) esiste in una società che non le fornisce le parole e i concetti necessari per parlare di sé, o che, peggio ancora, identifica il suo essere come un argomento poco adatto al salotto, un’eventualità esterna di cui al massimo si può discutere politicamente.
Eppure ci sono delle parole, e sono molte, che ci vengono fornite. Parole che non solo non vengono censurate neanche tra i giovanissimi, ma che addirittura vengono impartite come parte di un’educazione etica da molteplici istituzioni, prima fra tutte la religione. Direste mai a qualcuno di essere un pervertito? Perché invece non una z*ccola, una ninfomane, una peccatrice? Direste forse di essere una checca? O forse preferireste dichiararvi fr*cio, tr*vione o anche semplicemente invertita? Ma soprattutto… lo direste di fronte allo specchio? Perché riconoscersi e dichiararsi LGBTQ+ significa questo. Significa shame: vergogna.